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di Matteo Guidelli
ANSA MagazineaMag #012
Emergenza immigrazione

Anifa e gli altri, il lungo viaggio

Già oltre 20mila i migranti salvati nel Canale di Sicilia, un numero otto volte superiore a quello dell'anno scorso

Kibron è partito solo e senza aver mai visto il mare: ci ha messo quattro anni dall'Eritrea alla Sicilia. Nibal e il marito sono scappati dalla Siria nel 2012 ma lui si è ammalato di tumore in Libia e così è rimasto lì, quando lei è salita sul barcone una settimana fa. Ad Adan, i terroristi somali di Al Shabaab hanno ucciso la madre, la sorella e la moglie. Ed ora lui lava macchine gratis davanti al Cara di Mineo, dove da un anno attende il riconoscimento dello status di rifugiato.

Sono già 20.500 i migranti salvati nel canale di Sicilia dall'inizio dell'anno, un numero otto volte superiore a quello dell'anno scorso. Migliaia di uomini donne e bambini ognuno con la sua storia, i suoi ricordi, i suoi drammi. E le sue speranze.

Dalle violenze subite dai trafficanti di uomini alla partenza dalle coste libiche, dal salvataggio in mezzo al Mediterraneo all’arrivo nei Centri d’accoglienza, questo è il racconto del loro viaggio. E degli uomini che in silenzio cercano di salvare le loro vite.

 

Il viaggio e la speranza

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Yassir, Anifa e quelli che ce l’hanno fatta

Yassir, Anifa e quelli che ce l’hanno fatta

Scorre sangue reale nelle vene di Abu Anifa. Ma re del suo villaggio in Ghana non lo è mai diventato: piuttosto ha traversato Niger, Sudan e Libia; ha visto morire la madre e la fidanzata; è salito su un barcone diretto in Italia assieme a tanti altri disperati che sfidano il Mediterraneo pur di avere un futuro. Una vita.
Anifa come Yassir, che viene dal Sudan, ha attraversato Egitto, Giordania, Siria, Turchia, di nuovo l'Egitto e infine la Libia prima di rimanere sette giorni in balia del mare ed essere soccorso. Anifa come Kibron, che ci ha messo quattro anni per arrivare dall'Eritrea alla Libia e ora che è su una nave della Marina Italiana non vuole farsi prendere le impronte digitali perché vuole raggiungere Bruxelles, fare lì la domanda per ottenere lo status di rifugiato e ritrovare finalmente la sua famiglia. Anifa come Nibal, scappata dalla Siria due anni fa. Ora lei è in salvo in Italia ma suo marito è rimasto in Libia: si è ammalato di tumore e ha costretto la moglie e i figli a partire. "Vai, vai in Germania, sistemati, trova un lavoro e poi mi aiuterai a lasciare Tripoli". Uomini e donne uniti da un tragico passato e da un sogno di speranza.
"Non ho mai conosciuto mio padre - racconta Anifa - mi ha tirato su mia madre. Un giorno, quando avevo cinque anni, mi venne a prendere a scuola e invece di andare a casa scappammo in Niger. Mia madre era membro della famiglia reale del mio villaggio ma i fratelli decisero di sostenere un'altra fazione e di ucciderla. Non potevamo restare". Anifa comincia così un viaggio verso l'ignoto, lo stesso che altre migliaia di uomini e donne intraprendono per scappare dall'orrore. Sudanesi, somali, eritrei, maliani, nigeriani: il Sahara è pieno di carovane di disperati che spesso a piedi cercano di raggiungere le coste del Mediterraneo per salpare verso l'Europa. Affidandosi a trafficanti per i quali i migranti altro non sono che merce.
"In Niger mia madre si è ammalata e poi è morta. Io mi sono innamorato della figlia dell'imam del villaggio, ma io sono cristiano e suo padre non accettava il nostro rapporto. Così sono scappato di nuovo, con lei". Nel viaggio verso Khartoum, in Sudan, Anifa e la sua compagna restano però vittime di un incidente e lei muore. "Non sapevo più dove andare, ma non potevo tornare indietro. Così arrivai in Libia". Tra Tripoli e Zuwarah passa 6 mesi, lavorando. "Quando però sono andato a chiedere i soldi al mio datore di lavoro, quello mi ha detto che se l'avessi fatto un'altra volta mi avrebbe ucciso".
A quel punto traversare il Mediterraneo era l'unica soluzione rimastagli. "Alla fine parto e mi ritrovo in mezzo al mare, ero spaventatissimo, non si vedevano né case né soccorsi. Siamo stati due giorni in mare, perdevamo benzina. Ma alla fine ci hanno salvato". Anifa arriva così in Italia e finisce nel Cara di Mineo, dove si trova ormai da 11 mesi in attesa che il paese che lo ha salvato dia una risposta alla sua richiesta d'asilo. "E' un sacco di tempo, mi servono quei documenti". Anifa sta bene, gioca a calcio nella squadra del Centro. Ma non è libero di scegliersi il suo futuro.


Dentro Mare Nostrum

Mare Nostrum

"Il Mediterraneo è un mare di vita e nel nostro Dna c'è la salvaguardia della vita umana: per noi arrivare prima che il peggio succeda è fondamentale, dobbiamo salvarli tutti". Sul ponte di nave San Giorgio a 50 miglia dalle coste della Libia, l'ammiraglio Mario Culcasi guarda i mezzi da sbarco portare nella pancia della nave gli ultimi 980 migranti salvati nel Mediterraneo, l'ennesimo carico umano che va a sommarsi alle migliaia di disperati già arrivati a terra.

A lui l'Italia ha affidato la guida di Mare Nostrum, la missione umanitaria nata dopo la strage di Lampedusa per fare in modo che quei 366 morti in fondo al mare fossero davvero gli ultimi. Una missione che costa al nostro paese 300mila euro al giorno e che non può fallire: perché vorrebbe dire altri morti e perché se si chiede all'Europa, a ragione, di contribuire al controllo delle sue frontiere esterne in maniera ben più concreta di quello che sta facendo ora, bisogna innanzitutto non tirarsi indietro di fronte alle proprie responsabilità.

Così nel canale di Sicilia l'Italia ha schierato 5 navi della Marina, oltre alle motovedette e ai pattugliatori di Guardia Costiera e Guardia di Finanza; e poi ancora elicotteri, aerei, con e senza pilota, anche un sottomarino. Ogni giorno, ormai da mesi, accade sempre la stessa cosa: vengono individuati i barconi, i migranti vengono soccorsi e trasferiti sulle navi per essere poi portati a terra. "E' uno sforzo significativo - conferma il comandante dell'ammiraglia della flotta, nave San Giorgio, Aldo Dolfini - con una sola parola d'ordine: 'mai più'. Dobbiamo fare di tutto affinché mai più si creino situazioni" che poi hanno portato al naufragio del 3 ottobre. Nella pancia della sua nave somali, eritrei, ghanesi, sudanesi, nigeriani, maliani, siriani stanno uno accanto all'altro: la metà sono senza scarpe; la maggior parte dorme esausta formando un enorme tappeto umano nel ponte garage. I bambini giocano e sembrano essere gli unici ad aver già cancellato la paura.

Dall'inizio dell'anno, Mare Nostrum ha salvato 19mila vite grazie all'impegno di centinaia di uomini e donne che lavorano senza sosta: non solo quelli cui spetta il recupero in mare ma anche medici, poliziotti, volontari. Perché una volta a bordo delle navi italiane i migranti vengono visitati, assistiti, identificati, in modo da snellire le procedure a terra. Finirà questo esodo? "Il flusso è continuo - risponde l'ammiraglio Culcasi - penso che ne avremo ancora per un po'".


'Così diamo la caccia agli scafisti'

'Così diamo la caccia agli scafisti'

Mounji ha 52 anni e una volta faceva il pescatore in Tunisia ma con la rivolta dei Gelsomini ha cambiato lavoro e ora traghetta disperati dalla Libia all'Italia: quando l'hanno ammanettato nel ponte garage di nave San Giorgio aveva appena concluso il suo viaggio, l'ennesimo.

Mounji è solo uno dei tanti aguzzini che le organizzazioni criminali usano per spedire i loro carichi di uomini dall'Africa all'Europa, l'ultimo anello di una sistema che muove milioni di dollari e per il quale la vita delle migliaia di migranti non ha alcun valore. A dare la caccia agli scafisti è un nucleo costituito appositamente dal Viminale e denominato Gicic, che sta per Gruppo interforze contrasto immigrazione clandestina. Sono poliziotti, carabinieri, finanzieri e uomini della Guardia Costiera cui spetta il compito di scovarli sui barconi e, soprattutto, trovare le conferme alle prime indicazioni in modo da poterli inchiodare.

"Qualcuno lo ammette direttamente, dicendo di essere il proprietario della barca e di farlo per soldi, perché ormai è un business e si guadagna di più così" spiega il comandante del Gicic di Siracusa Carlo Parini. E buona parte di loro si porta addirittura dietro un documento di riconoscimento. "Se non riusciamo ad incastrarli - dice un altro membro del nucleo - li rimpatriamo e loro possono continuare l'attività". D'altronde diverse indagini, dice Parini, hanno dimostrato che, soprattutto i tunisini, fanno diverse volte le traversate del canale di Sicilia.
Ad oggi un viaggio Libia-Italia costa tra i 700 e i mille dollari, decisamente meno di quanto costava tempo fa, forse anche per il fatto che ormai le navi italiane si spingono fino a poche decine di miglia dalla costa africana. Ma per arrivare in Libia, dal Sudan come dalla Siria, dal Ghana come dall'Eritrea, ce ne vogliono altri 4mila. Di questi solo una minima parte finisce nelle tasche dei Caronte del terzo millennio, che però danno un contributo assai decisivo al traffico di esseri umani. E la maggior parte cerca di farla franca nascondendosi tra i migranti.

Ecco perché la caccia allo scafista è una cosa seria. "Il momento fondamentale - sottolinea ancora Parini - è l'arrivo del nostro uomo sul teatro operativo, perché solo in quella fase si possono cristallizzare certe informazioni e, in particolare, capire chi è alla guida dell'imbarcazione". L'uomo in questione è Paolo Pisano, effettivo alle Capitanerie di Porto ma prestato alla Marina. Passa la giornata su nave San Giorgio a esaminare i reperti sequestrati – satellitari, bussole, gps – e a cercare gli eventuali testimoni per inchiodare lo scafista. "La prima cosa che fanno quando si accorgono della nostra presenza è tentare di mimetizzarsi con gli altri - racconta -. Ma con una serie di domande a trabocchetto tradotte dal mediatore culturale, riusciamo spesso ad individuarli". E quali sono questi trabocchetti? "Chiediamo ad esempio se qualcuno è in grado di far ripartire il motore; oppure che se c'è qualcuno che è in grado di far sedere tutti quanti". E a quel punto che accade? "che le decine di persone a bordo, già provate psicologicamente e fisicamente, guardano involontariamente tutte verso la stessa persona". Mouji l'hanno preso così.


Anifa e gli altri


Nel limbo di Mineo

Mineo

Con una mano salviamo in mezzo al mare i migranti in fuga da guerre e dittature, per dar loro un futuro e una speranza, e con l’altra li teniamo chiusi nei Centri anche più di un anno in attesa che la burocrazia dia finalmente una risponda alle loro legittime richieste: il paradosso dell’immigrazione si compie definitivamente a Mineo, il Centro più grande d’Italia immerso tra gli aranceti della provincia di Catania e ospitato in quelli che erano gli alloggi dei sottufficiali americani di stanza nella base di Sigonella.

Mineo non è Lampedusa, il Centro dello scandalo, con i migranti costretti a dormire in terra e sottoposti all’aperto alle docce antiscabbia; e non è Pozzallo, dove chi arriva dall’Africa è ospitato in un orrido capannone freddo d’inverno e bollente d’estate, con pannelli di legno per oscurare la vista a chi sta dentro e chi sta fuori e grate di ferro fin sul tetto. Da questo punto di vista il Cara di Mineo – tecnicamente un Centro accoglienza per richiedenti asilo – è un hotel, almeno a tre stelle. Gli ospiti, che sono quattromila, vivono a gruppi di una decina in villette a due piani, divisi per etnie e nuclei familiari. Hanno a disposizione quattro mense che preparano 12mila pasti al giorno, la chiesa e la moschea, un internet point, una sorta di spaccio dove possono comprare quello che gli serve grazie ai due euro e mezzo che lo Stato gli passa ogni giorno e che vengono caricati su un badge con cui fare gli acquisti, l’assistenza sanitaria della Croce Rossa 24 ore al giorno. E ancora, possono seguire corsi di idraulica, elettronica, italiano, laboratori di cucito e sartoria; mandano i figli nelle scuole di Mineo. Possono uscire e rientrare quando vogliono. Ma non possono andare da nessuna parte. Non possono lavorare. Non possono costruirsi un futuro.

Non possono perché sono in un limbo: hanno tutti presentato la domanda di asilo politico, molti da più di un anno, e non hanno ancora ottenuto risposte. Dunque non sono né clandestini e né rifugiati. Uomini e donne con un’identità, una storia e, nella quasi totalità dei casi, un dramma alle spalle, ma senza alcun documento. Senza quel pezzo di carta che gli consenta di lavorare, per esempio. O di scegliere se restare in Italia oppure raggiungere un altro paese d’Europa dove ad attenderli ci sono i loro familiari. E non è un caso che le rivolte scoppiate nel Centro siano avvenute, tutte, per i tempi di permanenza troppo lunghi.

Il problema sono le commissioni territoriali che devono esaminare le richieste dei migranti, troppo poche per le domande già presentate, senza voler contare le 13mila arrivate solo dall’inizio dell’anno. Il ministro Alfano ha promesso recentemente che verranno raddoppiate, portandole da 10 a venti ma allo stato non è cambiato nulla. “Sto qui da un anno – dice Tesqua, che con due figlie è scappata dall’Eritrea – sto bene a Mineo ma vorrei avere un futuro, voglio sistemare le mie figlie, imparare l’italiano e trovare un lavoro. Ma senza documenti non posso farlo”.
Parole che il direttore del Cara, Sebastiano Maccarrone, sottoscrive senza problemi. “I problemi nascono per i tempi lunghi di attesa per il riconoscimento dello status di rifugiati – dice –. Da sempre ci stiamo battendo per raddoppiare o triplicare le commissioni territoriali perché è necessario snellire le procedure in tempi ragionevoli”. In media, aggiunge, i tempi d’attesa sono stimati in 8-10 mesi. “Ma se poi arriva un diniego dalla commissione e si fa ricorso ai tribunali ordinari, allora i tempi si allungano ancora di più”. E si sta chiusi a Mineo per ben più di un anno.
Come Adan, che è arrivato 13 mesi fa dalla Somalia. “Mia madre è stata uccisa da Al Shabaab, mia sorella è stata uccisa da Al Shabaab e mia moglie pure. Sono scappato se non sarei morto anche io” E cosa fai in attesa del permesso? “Lavo gratis le macchine che arrivano al Centro. Io vorrei rimanere in Italia, vorrei lavorare ma non posso finché non mi danno quella risposta”.