(dell'inviata Manuela Tulli)
(ANSA) - LEOPOLI, 05 MAG - Olga ricorda quel 10 marzo come se
fosse oggi: finalmente riusciva a lasciare Bucha con un
corridoio umanitario. Per giorni era rimasta con i tre figli nel
rifugio dello stabile dove c'è il suo appartamento al terzo
piano e non poteva immaginare che cosa avrebbe visto. "Dal
pullman vedevamo i cadaveri a terra, erano tanti, ho subito
cercato di coprire con le mie mani gli occhi dei ragazzi,
soprattutto del più piccolo. Non volevo che vedessero tanto
orrore", dice raccontando che proprio mentre stavano andando via
con il "corridoio verde", come chiamano qui i corridoi
umanitari, "i russi hanno sparato ad un uomo che andava in
bicicletta. Volevano farci vedere che cosa sapevano fare".
Olga è una dei 170 ospiti della parrocchia di San Giovanni
Paolo II alla periferia di Leopoli. Con le treccine alla moda e
i pantaloni da adolescente dimostra molto meno dei suoi 33 anni.
E' mamma di tre ragazzi: Samandar di 16 anni, Iscandar di 15,
Ibrahim di 9 e li cresce sola perché da anni è separata dal
marito. Nell'edificio parrocchiale ci sono in tutto una
quarantina di bambini con le loro mamme o nonne. Vengono da
Kiev, Kharkiv, Zaporizhia, Irpin, Bucha e anche da Mariupol.
Tutti sono in attesa di tornare a casa ma "aspettano di vedere
ciò che Putin annuncerà il 9 maggio", dice all'ANSA il parroco,
don Gregorio Graus. Anche Olga Stroieva con i tre figli vorrebbe
tornare nella sua Bucha. Anzi "una volta in questi giorni sono
andata, ho lasciato qui i bambini e sono tornata a casa". E'
danneggiata, con pareti scalfite e tutte le finestre rotte, ma è
ancora in piedi. "Ma ancora non ci si può vivere: nella mia casa
non c'è elettricità, gas, acqua. I ponti sono stati distrutti e
poi ovunque ci sono cartelli che indicano il pericolo di mine.
Non posso per ora riportare lì i ragazzi", dice. A Bucha -
racconta nell'incontro con la fondazione pontifica Aiuto alla
Chiesa che Soffre che in questi giorni è in missione umanitaria
in Ucraina - era parrucchiera, "aspetto di trovare lavoro qui a
Leopoli, dalle nostre parti ora è difficile lavorare", dice
mentre tiene stretto per la mano il più piccolo dei tre figli.
Nella parrocchia cattolica che ha dedicato tutte le stanze ai
profughi, che non ha più aule per il catechismo o per altre
attività, Olga non è l'unica musulmana. Ci sono poi anche
ortodossi "ma la maggior parte di queste persone sono non
credenti", spiega il parroco aggiungendo che tra i profughi
comunque "non c'è nessun cattolico. Ma noi non chiediamo nulla.
Né da dove vengono né di quale religione sono. Apriamo la porta
e basta".
Ora, a due mesi dallo scoppio della guerra, c'è un 'desk' che
organizza stanze e pasti; aiutano volontari arrivati dalla
Polonia, dalla Danimarca e anche un medico francese. Vitaliy
Dmetricin, il giovane seminarista che aiuta il parroco in questa
'impresa', per quella che era una piccola parrocchia di 500
anime, ricorda il primo giorno, alla fine di febbraio, in cui
cominciò ad arrivare gente che chiedeva aiuto. "Abbiamo aperto
le porte, i primi giorni siamo arrivati ad ospitare oltre
duecento persone e non avevamo niente. Don Gregorio ha aperto il
suo portafogli e mi ha dato tutto quello che aveva per fare la
spesa: tremila grivnia, neanche cento euro. Abbiamo fatto la
spesa per poter cucinare solo quel giorno. Ma poi Dio ci ha dato
molto di più". (ANSA).