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Quelle mani dei robot così umane grazie ad un ricercatore italiano

Quelle mani dei robot così umane grazie ad un ricercatore italiano

È Giuseppe Averta, 28 anni, vincitore del premio europeo per la robotica Georges Giralt PhD Award.

ROMA, 30 aprile 2021, 13:31

Redazione ANSA

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Giuseppe Averta - RIPRODUZIONE RISERVATA

Giuseppe Averta - RIPRODUZIONE RISERVATA
Giuseppe Averta - RIPRODUZIONE RISERVATA

di Alessio Jacona*

Verrà un giorno in cui i robot antropomorfi popoleranno le nostre vite e ci tenderanno la mano ogni volta che ne abbiamo bisogno. E quando quel giorno verrà, se quella mano e i suoi movimenti sembreranno quasi umani, il merito sarà anche di Giuseppe Averta.

Ventotto anni, originario di Serra San Bruno, piccolo paese in provincia di Vibo Valentia «con il merito di avere un ottimo liceo», Averta è un ingegnere biomedico affascinato dal corpo umano che nel 2021 ha vinto con la sua tesi di dottorato il Georges Giralt PhD Award, il prestigioso premio che ogni anno lo European Robotics Forum dà a un europeo cui riconosce uno “straordinario contributo alla robotica”.

Come già Leonardo da Vinci, che cinque secoli fa aveva osservato la natura e gli uccelli per progettare macchine volanti, così Averta si è dedicato allo studio rigoroso dei movimenti della mano e del polso umani per trasformarli in modelli matematici da trasferire su mani robotiche, in modo da renderle capaci di manipolare gli oggetti con uguale efficienza. Non solo: «Se riusciamo a far muovere gli arti artificiali in maniera naturale - spiega Giuseppe Averta - da un lato facilitiamo la collaborazione uomo-macchina e dell'altro, nel futuro agevoleremo l’accettazione dei robot antropomorfi da parte della società».

La tesi del giovane ricercatore italiano è intitolata “Human-Aware Robotics: Modeling Human Motor Skills for the Design. Planning and Control of a New Generation of Robotic Devices”, è stata conseguita al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa ed è basata su ricerche nei laboratori del Centro “E.Piaggio” e presso l’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova. In essa, Averta mette a frutto l’osservazione di ciò che potremmo definire un vero paradosso del corpo umano: «In questa macchina meravigliosa – spiega – il sistema nervoso gestisce 600 muscoli che muovono 200 ossa. Tali muscoli sono molto meno forti e veloci degli attuatori (cioè dei motori) con cui muoviamo gli arti artificiali, eppure sono molto più efficienti». La lezione che Averta ne ha tratto è che, per creare mani artificiali più capaci e “human friendly” delle attuali, bisogna semplificarne il più possibile design e funzionamento.

Un principio che Averta ha applicato con profitto anche alla descrizione del funzionamento del polso artificiale, dando un importante contributo all’evoluzione del sistema mano-polso. E che ha anche altri apprezzabili “effetti collaterali”, perché la semplificazione che egli propone rende più efficienti e meno costosi da produrre non solo gli arti dei robot, ma potenzialmente anche le protesi che saranno realizzate seguendo le sue indicazioni.

Infine, fondamentale nel lavoro di Giuseppe Averta è stato anche il ruolo dell’intelligenza artificiale: «Abbiano fatto e facciamo largo uso dell’IA per capire che tipo di azione deve compiere il robot - rivela - perché una volta in grado di replicare i movimenti antropomorfi, la macchina deve essere messa in condizione di compierli autonomamente». In particolare, Averta ha collaborato con gli ingegneri informatici dell’Università di Pisa per realizzare algoritmi in grado di apprendere, di acquisire informazioni relative all'ambiente in cui si trova e compiere azioni: «Noi lavoriamo soprattutto sull’afferraggio degli oggetti - spiega - e grazie al machine learning il nostro robot diventa in grado di identificare il tipo di oggetto che deve afferrare, di riconoscerne forma e posizione, quindi di scegliere come afferrarlo in maniera antropomorfa». Ad esempio nel caso di una bottiglia, il robot impara che che deve afferrarla di lato, mentre se deve manipolare una pallina da tennis, allora apprende che è meglio prenderla con un gesto che parte dall’alto.

«Il robot manipolatore può fallire - spiega Giuseppe Averta - e l’oggetto manipolato può cadere, ma grazie all’IA non è un problema, anzi: se la mano è dotata di sensori, una rete neurale può riconoscere il problema e apprendere come risolverlo - conclude - per esempio reagendo in tempo per serrare di più la mano o, in presenza di un altro robot, facendolo intervenire prima che l’oggetto tocchi terra».

*Giornalista esperto di innovazione e curatore dell’Osservatorio Intelligenza Artificiale ANSA.it

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