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Achille Serra ricorda il commissario Luigi Calabresi ucciso 50 anni fa

"Il governo invece di salvargli la vita, lo lasciò da solo"

"Sono stati due anni e mezzo di omicidio permanente e il governo di allora non ha fatto niente per lui: lo ha lasciato da solo, invece avrebbe potuto salvarlo. E' stato ucciso per due anni e mezzo ogni giorno, con le scritte sui muri, con le lettere firmate da intellettuali e nei cortei in cui si gridava 'assassino, assassino'". Non finirà mai di ripeterlo Achille Serra, l'alto dirigente di polizia diventato anche senatore, ricordando Luigi Calabresi, l'amico commissario assassinato il 17 maggio 1972 in via Cherubini a Milano, mentre stava andando al lavoro.

A distanza di 50 anni da quella tragica mattina, a pochi giorni dalla commemorazione nella chiesa di San Marco, la stessa dove si celebrarono i funerali dell'allora vice capo dell'ufficio politico ucciso per mano di Lotta Continua, Serra ricorda ancora nei minimi dettagli quegli attimi. Prima di riavvolgere la moviola e tornare indietro, però racconta: "Era il 1969, ero appena arrivato a Milano ed essendo fresco di università e alle prime armi, fui 'affidato' per qualche giorno a Calabresi. Aveva qualche anno più di me". Fu una sorta di 'tirocinio' in cui "ebbi subito occasione di imparare". Nacque un'amicizia, complice anche il fatto che entrambi erano di Roma.

I ricordi poi si susseguono quasi come un film in bianco e nero: "era un uomo bellissimo, molto religioso e un padre e marito perfetto" da cui ereditò molto. Soprattutto la lezione che accompagnò tutta la carriera di Serra. Erano gli anni delle proteste, la tensione era alta, le molotov e gli scontri erano all'ordine del giorno. Una volta, mentre era stato organizzato un corteo studentesco davanti al consolato statunitense "Calabresi mi portò con sé in macchina. Mentre io mi nascondevo, lui scese e andò a parlare con i dimostranti e le forze dell'ordine. Questo per me fu un 'faro'. Io sono cresciuto con quell'episodio: il dialogo e non la violenza. La forza della parola è stato l'elemento predominante della mia professione".

Indelebile è, ovviamente, la scena della mattina dell'omicidio. Quando venne dato l'allarme in Questura si pensò a un fatto di sangue qualsiasi. "Dissero che avevano sparato a una persona e mandarono me, che ero uno tra i più giovani. Ho ancora vivo negli occhi il momento del mio arrivo in via Cherubini". In strada c'era tanta gente, molti lo conoscevano. "Seppi da loro che si trattava del commissario Calabresi. Io non lo vidi perché era appena stato portato via dall'ambulanza sulla quale, durante il tragitto verso l'ospedale, morì. Mi attaccai alla radio e poco dopo arrivarono tutti: il prefetto, il questore, il capo della mobile e dei vari uffici di via Fatebenefratelli. Tutti con le lacrime agli occhi".

Impossibile anche cancellare il ricordo di quando venne avvertita la moglie, Gemma, in attesa del terzo figlio: "Ricordo la sua fierezza e la sua frase: 'ho capito tutto'. Era consapevole dei rischi che ogni giorno correva suo marito". E infine il funerale, con i giovani funzionari della Questura che si ribellarono alla dirigenza che aveva imposto una cerimonia modesta per non creare problemi di ordine pubblico."Protestammo, dicendo che era una vergogna" non dare l'ultimo addio "in modo degno a un grande uomo. Riuscimmo a portare la bara a braccio, facendo il giro dell'isolato, fino in chiesa a San Marco". La stessa dove martedì prossimo ci sarà una funzione religiosa con le autorità alla quale farà seguito una commemorazione 'laica' nel cortile di quel palazzo che Calabresi non si sognò mai di lasciare. "Gli consigliavo di andarsene da Milano - racconta ancora Serra - e lui mi rispondeva 'perchè? Non ho fatto nulla. Se tu fossi al posto mio te ne andresti?' Dentro di me era 'no' ma non avevo, come lui, moglie e figli. Ma quel che è inaccettabile è che non solo non gli diedero la scorta, ma nemmeno gli imposero il trasferimento d'ufficio. Il governo, invece di salvargli la vita, lo lasciò da solo".
   

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