ALFIO CARUSO, 'SALVATE GLI
ITALIANI. MUSSOLINI CONTRO HITLER. BERLINO 1944 (NERI POZZA, PP.
223, 18 EURO)
Il 12 settembre 1943, quando i tedeschi liberano Benito
Mussolini a Campo Imperatore, il duce spera che quei militari
giunti fin lì siano inglesi. Scoprendo che le cose stanno
diversamente, la sua delusione è palese, ma questo non gli
impedisce di mentire a Otto Skorzeny: "Sapevo - dice al militare
- che Adolf Hitler, il mio amico, non mi avrebbe abbandonato".
Continua così la tragica commedia che va avanti fino alla fine,
quando gli italiani, nel silenzio della Repubblica di Salò, non
sanno cosa fare a Berlino davanti all'avanzata sovietica nella
primavera del '45: "A molti sembra ripetersi l'identica
situazione dell'8 settembre, allorché nessuno aveva saputo in
che modo comportarsi con i tedeschi e ciascuno si era regolato
secondo coscienza e convenienza", scrive Alfio Caruso, che nel
suo "Salvate gli italiani" continua a scavare nella storia del
Ventennio, grazie anche alle testimonianze di Renzo Morena,
figlio del generale Umberto, che a Berlino fu il capo della
missione militare all'ambasciata guidata da Filippo Anfuso;
Prisca Bettoni, figlia del consigliere d'ambasciata Gian
Galeazzo; Oreste Foppiani, il cui padre, Armando, era delegato
della Croce rossa.
Caruso porta allo scoperto una storia finora inedita di quel
periodo: il tentativo di Mussolini di salvare settecentomila
italiani internati, fascisti e non, costretti da Hitler a una
condizione di quasi schiavitù, utilizzati prevalentemente come
forza lavoro, come accadde ai centomila impiegati per liberare
strade e piazze dopo il bombardamento di Berlino del 23 novembre
'43 da parte degli alleati.
Il 20 luglio 1944, durante una sosta a Gorlitz del treno che
trasporta Mussolini a Rastemburg per l'incontro con Hitler, da
qualche ora scampato all'attentato architettato dal colonnello
von Stauffenberg, dice a Morera che bisogna riportare a casa i
settecentomila connazionali che si sono rifiutati di aderire
alla Repubblica di Salò: non un italiano deve morire o tornare
in patria mutilato o tubercolotico, furono, in sintesi, le sue
parole.
Non è chiaro cosa spinga il duce a questa determinazione.
Proprio lui, sottolinea Caruso, che quattro anni prima aveva
portato in guerra il Paese, sostenendo cinicamente che gli
serviva qualche migliaio di morti. Forse è "l'ultimo dispetto
del duce al Fuhrer. La conclusione di un rapporto in cui il
primo ha sempre subito il secondo. Una stizzita presa di
distanza che giunge troppo tardi, sulla quale ha probabilmente
pesato la 'larvata e umiliante occupazione' di quella parte
d'Italia appaltata alla Repubblica". Probabilmente si concedeva
un'altra chance, facendo risaltare che "lui aveva ottenuto dal
suo soprastante quello che Badoglio non aveva ottenuto da
Roosevelt e Churchill, pur avendo dichiarato guerra alla
Germania: il rilascio dei prigionieri in mano alleata".
Qualunque sia stata la ragione, molti vengono salvati. Prisca
Bettoni racconta un episodio che le fu riferito nel 1959 da
Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica: in
divisa da ufficiale tedesco, il padre, che conosceva molto bene
la lingua ed era biondo con gli occhi azzurri, "si presenta ai
commissariati dove sono reclusi gli italiani nei guai con la
giustizia. Ogni volta esibisce un falso ordine di
scarcerazione". L'operazione va avanti per parecchi giorni,
"finché papà non percepisce che le SS si sono insospettite". Gli
italiani liberati vengono nascosti nei sotterranei
dell'ambasciata, già utilizzati da Foppiani per nascondere gli
internati in fuga.
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